Eventi

La guerra e il dopoguerra

Una testimonianza ai tempi del Coronavirus

Dal blog di La Repubblica una testimonianza di Carlo Troilo sul secondo dopoguerra in Abruzzo. 

http://troilo.blogautore.espresso.repubblica.it/ 

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Come tutti, anch’io soffro per la reclusione cui mi costringono le norme anti-Coronavirus, anche perché (a detta degli amici) sono un “ipercinetico”. E sono molto preoccupato per i danni che questo blocco di quasi tutte le attività porterà alla nostra economia: danni di cui fatalmente risentiranno di più le famiglie e le persone meno abbienti.  Per questo,  dinanzi ai tanti che si chiedono se sarà possibile il recupero dei livelli di vita precedenti la pandemia,  penso possa servire da incoraggiamento la testimonianza di una persona come me, fra le poche che possono ancora raccontare, avendoli vissuti, gli  anni tremendi della guerra e del dopoguerra.   Ed ecco qualche  mio ricordo.

Alla fine di settembre del 1943 mia madre, i miei due fratelli ed io eravamo ancora a Torricella Peligna, il paese abruzzese di mio padre, ospiti come sempre a casa di mio nonno Nicola, che per oltre 30 anni era stato il  medico condotto di Torricella.

In quegli anni, visto che le scuole chiudevano per quattro mesi, le nostre vacanze estive  iniziavano a metà giugno, con una quindicina di giorni di mare a Francavilla, sempre nella stessa casetta sula spiaggia, e proseguivano per due mesi e mezzo  a Torricella, nella casa di nonno Nicola: un vero e proprio palazzo, che oltre alla nostra famiglia  ospitava, negli anni della guerra,  zia Maria, sorella di mio padre, e  il figlio  Antonio (  il marito di zia Maria  era in Africa, prigioniero degli inglesi).

Di solito nostro padre ci raggiungeva a fine luglio, ma nel 1943 rimase a Roma per gli impegni legati, oltre che alla sua professione di avvocato,  alla  militanza antifascista, che il 26 luglio (dopo la destituzione di Mussolini)   lo portò a liberare  da Regina Coeli  l’avvocato Federico Comandini e molti altri detenuti politici ed  in agosto lo vide impegnato nella raccolta di armi, che lui ed i suoi compagni distribuirono ai colleghi ed agli  amici per  partecipare al   disperato tentativo di   difesa di Roma a Porta San Paolo. Ricercato dalla polizia nazifascista, si nascose a casa di amici e solo il 19 settembre riuscì a lasciare la Capitale ed a raggiungere il suo paese natale. A Torricella si dedicò subito a raccogliere vecchi e nuovi compagni per dar vita ad una qualche forma di  resistenza al momento dell’arrivo delle truppe tedesche.

Il 19 ottobre del ’43 era una bella mattina di sole e mio padre passeggiava per il corso del paese con un  amico, Gigi Mancini.  Io – che avevo compiuto a giugno i cinque anni -  gli davo la mano, mentre Mancini aveva al suo fianco la figlia Gigliola, mia coetanea e amica di una vita.

Nel giro di pochissimi minuti dalle tre strade di accesso al paese sbucarono fulmineamente tre camion carichi di S.S.  che sparando in aria intimavano a tutti gli uomini validi di radunarsi nella piazza della Chiesa. Un giovane, che tentò di fuggire, fu subito abbattuto da una raffica di mitra, primo dei quasi cento torricellani “vittime civili” dei nazisti (cento vittime civili fu la media di tutti i paesi dell’alto chietino occupati dai tedeschi).     Mio padre e Mancini tentarono di sfuggire rinchiudendosi  nel portone di uno dei pochi palazzi nobiliari del paese. Misero anche i catenacci, come se questo potesse bastare a fermare le SS.   Ma dopo pochi minuti si resero conto che resistere sarebbe stato vano ed avrebbe messo a rischio anche le vite dei figli, per cui aprirono il portone e furono subito portati nella piazza della Chiesa,dove erano parcheggiati  due camion su cui gli uomini venivano caricati per essere portati a lavorare sugli altipiani di Roccaraso al rafforzamento della Linea Gustav (1).   Improvvisamente, la moglie di uno dei prigionieri  iniziò a dare in escandescenze, incitando le altre donne ad agire per liberare i propri uomini.   Allora vidi mio padre che, approfittando con grande freddezza della confusione,  rapidamente scendeva dal camion e si avviava con aria tranquilla verso la casa di nostro nonno, distante poche centinaia di metri.  Ad un tedesco che lo fermò disse di essere un medico che andava a visitare un malato e così fu lasciato andare.  Purtroppo qualcuno ( i fascisti  e le spie erano tanti) andò a dire ai tedeschi che l’uomo che si era allontanato era un noto antifascista, per cui due  SS si fecero accompagnare  a casa di mio nonno, dove mia madre – con il sangue freddo della disperazione – ordinò a me ed ai miei fratelli di simulare la disperazione per la cattura di nostro padre. Il quale, nel frattempo, si era eclissato  passando di tetto in tetto fino a raggiungere la campagna e la masseria di un vecchio compagno socialista.

Da allora alla fine di novembre alcuni tedeschi  si  insediarono  in casa nostra, dove si comportarono molto civilmente, non importunando mai  – fra l’altro – mia madre e  mia zia Maria, che erano due donne giovani e molto belle. Ricordo in particolare un soldato che mi aveva preso in simpatia, spesso giocava con me “a bottoni” e mi mostrava sempre le foto dei suoi due figli.  Dico questo per spiegare il mio sgomento quando proprio quel soldato ci diede – con il massimo della freddezza - l’ordine di prendere lo stretto necessario e di abbandonare la casa entro un’ora (i tedeschi avevano deciso di fare “terra bruciata” dinanzi alla avanzata degli inglesi).  Era un tardo pomeriggio di  fine novembre, fuori era buio e molto freddo e c’era un buon mezzo metro di neve.  E così, portando un po' di viveri e di vestiario nei nostri fagotti, ci avviammo verso Casoli, che distava circa venti chilometri  ed  era già stata liberata dagli inglesi. Mio cugino Antonio – che non aveva ancora tre anni -  aveva un bastoncino cui era appeso un piccolo fagotto, come Chaplin quando fa il vagabondo.  A un certo punto inciampò, cadde nella neve e disse con rabbia: “Mannaggia alla puttana”.    Un’ora dopo, dalla campagna, mio nonno, quasi ottantenne, udì il boato delle centinaia di mine e vide le fiamme che divoravano, fra le tante altre,  la sua bella casa. Alla fine della guerra, tutti i suoi risparmi, investititi in Buoni del Tesoro, si trasformarono in carta straccia e per il resto della sua vita dovette subire l’umiliazione di essere mantenuto dal figlio.  E come lui tantissimi vecchi sopravvissuti alle atrocità della guerra.

A notte tarda raggiungemmo una masseria di contadini che conoscevamo e che ci permisero (fra la nostra famiglia e quelle dei Mancini e di mia zia Maria eravamo una dozzina  di persone) di “dormire” nel fienile: mio nonno e i bambini sulla paglia, le madri sedute su sedie malandate.

In quella masseria  passammo diversi giorni, provando per la prima volta il dramma della fame ed aspettando un momento in cui non ci fosse il rischio di imbattersi nei tedeschi, perché sapevamo delle molte  stragi di civili inermi che si stavano verificando:   solo a 2 o 3 chilometri dal nostro rifugio  i soldati della Wehrmacht avevano trovato nascosti in una vecchia masseria, in località Santagata, 42 contadini di Torricella e li avevano massacrati gettando dalle finestre  decine di bombe a mano.

Quando finalmente,  lasciando i sentieri di campagna,    raggiungemmo  la strada asfaltata che entrava a Casoli, la prima visione fu quella di una jeep con a bordo due soldati inglesi, che ci fecero capire che in paese era possibile trovare un alloggio.

Fortuna volle che nei giorni precedenti proprio a Casoli mio padre, accompagnato da una quindicina di aspiranti partigiani,  fosse riuscito a mettersi in contatto con il Comandante della guarnigione  inglese, il maggiore Lionel Wigram,  e lo avesse convinto ad inserire la sua piccola banda in una formazione mista italo – inglese, che dal nome del maggiore prese il nome di Wigforce.  Questo ci aiutò ad ottenere due stanze in uno dei più importanti palazzi  del paese, in cui alloggiavano anche Wigram ed altri ufficiali inglesi.   Brande con materassi, un caminetto per riscaldarci (una volta alla settimana mia madre e zia Maria riscaldavano l’acqua di una bacinella e facevano una specie di bagno a me e ad Antonio, in equilibrio instabile), pidocchi e geloni per tormentare le nostre giornate e le interminabili notti, con le bottiglie piene di acqua calda che riuscivano a  scaldarci un poco, quando non esplodevano gettandoci nella disperazione.

Quando gli ufficiali inglesi erano fuori casa, Antonio ed io frugavamo fra le loro cose fino a trovare un pezzetto di cioccolata o qualche caramella. Visione celestiale, le grandi fette candide di pane a cassetta, per noi sconosciuto, come sconosciute – e bramate – erano le scatole di carne e di formaggio.  I miei fratelli (Nicola, di 14 anni, e Michele di 12) ed i loro amici riuscivano ogni tanto a farsi dare una sigaretta, che andavano a fumare di nascosto fra i rami di un albero vicino a casa.  Molto più incautamente, scendevano in cantina e svitavano la parte inferiore di qualche bomba lì depositata per estrarne dei fili neri  (penso fosse bachelite) che usavano come fuochi di artificio.

Casoli è un paese piuttosto grande ( all’epoca  poteva avere circa seimila  abitanti)  ma  fu travolto  da una marea di sfollati (decine di migliaia), che per lo più venivano dirottati verso la non lontana costa adriatica e le Puglie,  liberate dagli Alleati con battaglie – come quella di Ortona – non meno dure di quelle che si svolgevano nello stesso periodo a Cassino,  terminale della Linea Gustav sul Tirreno, come Ortona lo era sull’Adriatico (1). Accenno solo al fatto che in quel periodo l’Abruzzo – da secoli tagliato fuori dai grandi eventi della storia – si trovò al centro della guerra in Italia.  Da un lato, Mussolini prigioniero al Gran Sasso e il Re che fugge con la Corte e il governo imbarcandosi ad Ortona; dall’altro i capi supremi delle forze contendenti (Kesselring, che in Abruzzo – esasperato dalla resistenza della popolazione -  ordina per la prima volta gli eccidi non motivati da ragioni di rappresaglia ad atti ostiti; Montgomery, che intitola le sue memori di guerra “Da El Alamein al Sangro”).

Per le strade di Casoli si aggiravano, oltre ai militari inglesi,  soldati di tutto il Commonwealth: canadesi, australiani, neozelandesi, indiani (noi bambini – ma anche le nostre madri – eravamo affascinati soprattutto dagli ufficiali Sikh, con i loro turbanti resi sfarzosi, per gli ufficiali di più alto grado, da un cospicuo diamante). A completare questo quadro variopinto, la sera sfilava per il corso  la banda degli scozzesi, che con le loro cornamuse e soprattutto i loro  gonnellini suscitavano la nostra ilarità.   A Casoli passammo i mesi dell’inverno  più freddo degli ultimi anni, con le bombe dei due eserciti che sorvolavano il paese ed ogni tanto – per la gettata insufficiente dei cannoni – sfioravano i tetti delle case, “scoperchiandone” qualcuna.

L’occupazione più dura ed assidua era la ricerca del cibo.  Ricordo in particolare una masseria alla estrema periferia del paese in cui ogni tanto riuscivamo a comprare un litro di latte o un cestino di uova.  Per raggiungerla e per tornare a casa, percorrendo sentieri scoscesi ed innevati, impiegavamo quasi due ore. Un giorno la mia amica Gigliola ed io scivolammo sulla neve e finimmo distesi sulla strada proprio mentre arrivava un carro armato inglese, il cui autista, per non stritolarci, dovette sterzare di colpo e finì fuori strada. Imparammo allora alcune delle parolacce inglesi che ripetevamo per gioco.

Dopo tre mesi, nostro padre trovò una sistemazione migliore per noi: una piccola casa sulla piazza del paese, dove oggi una targa ricorda che lì abitò, nell’inverno del 1943, il fondatore della Brigata Maiella. Dinanzi a quella targa si è fermato un attimo, lo scorso 25 aprile, il Presidente Mattarella.

A giugno, liberata Torricella dai partigiani, potemmo tornare al nostro paese, ridotto ad un mare di macerie.  Dalla distruzione  si erano salvate solo la Chiesa (vedemmo con stupore le  mura imbrattate da disegni osceni e sul  pavimento, misteriosamente,  una mucca sventrata  e putrefatta) e le case del Corso, che i tedeschi avevano risparmiato forse perché erano quelle in cui fino all’ultimo momento avevano avuto i loro comandi.  In una di queste – libera perché i proprietari, nostri amici da sempre, si erano rifugiati  a Bari presso i loro familiari pugliesi – trovammo una inattesa  sistemazione.   Andammo subito a vedere i ruderi della casa di nonno Nicola e restammo stupefatti nel trovare soltanto una enorme voragine.  Nella quale i miei fratelli, frugando con cura, trovarono solo due candelabri d’argento miracolosamente sfuggiti a chi ci aveva preceduti nella ricerca degli oggetti di valore.

Fu una estate malinconica, senza più la pena del freddo ma con una estrema scarsità di cibo.

A fine settembre tornammo a Roma – che a giugno era stata liberata dagli americani – per evitare ai miei fratelli di perdere un secondo anno di scuola e consentire a me di frequentare la prima elementare. Tornammo viaggiando nel cassone di un camion della Brigata Maiella, passando “a guado” il Sangro e l’Aventino, dato che tutti i ponti erano stati distrutti.   Nostro padre – che in quel periodo guidava la sua “Maiella” alla liberazione delle Marche e della Romagna – venne a trovarci un paio di volte, portando dei viveri cui davamo letteralmente l’assalto (in particolare alle sbarrette di  cioccolata inglese).

Roma, scampata ai bombardamenti, era terribilmente  triste. Tutti gli amici che incontravamo erano magrissimi per i tanti mesi di digiuno forzato;  i mezzi pubblici erano sostituiti dalle famose “camionette” a tre ruote, con grappoli di passeggeri stipati dentro e fuori ; nel vicino mercato di via Montesanto  poche e misere bancarelle (le cose migliori si trovavano altrove, per chi poteva permettersi i prezzi del mercato  nero). Un giorno scoprii che al mercato erano molto ricercate le bottiglie vuote. Scesi in cantina, presi le bottiglie che vi giacevano ed in cambio ottenni una  bustina di fichi secchi, che mi guardai bene dal dividere con i miei fratelli.   La mattina andavo a scuola, alla “Pistelli”, portato “in canna” dal portiere.  Nella casa priva di riscaldamento (anche qui, geloni a volontà)  i  pranzi e le cene erano da sopravvivenza, e ricorderò sempre mia madre che a un certo punto diceva: “Se volete ancora un pò di pasta, a me non va più”. E quando  usciva coglieva i fiori delle acacie e  faceva il miracolo – da quella cuoca straordinaria che era – di trarne una torta, che a noi sembrava buonissima.

La nostra casa – dove io sono nato – era in via Timavo: l’ultima palazzina prima dei “prati” che scendevano fino alle rive del Tevere.  Ricorderò sempre che una mattina fui svegliato da un chiasso che veniva da quella parte. Mi affacciai e vidi delle specie di giganti,  con tute, bastoni  e caschi, che si cimentavano urlando  in  uno strano gioco: non erano  marziani  ma soldati americani impegnati  in  quello che poi sapemmo essere il “baseball”.

All’inizio di gennaio nostro padre fu nominato prefetto di Milano  al posto di Riccardo Lombardi, che aveva accettato di far parte del primo governo De Gasperi come ministro dei Trasporti ponendo come condizione che al suo posto andasse  un altro comandante partigiano (dalla fine della guerra le prefetture erano state tolte ai prefetti di carriera, tutti inevitabilmente fascisti, e affidate a prefetti “politici”, cioè di nomina del Comitato di Liberazione Nazionale). Partì con un vecchio  aereo militare, indossando un logoro cappotto dei tempi andati con cui fu fotografato, al suo arrivo a Milano, dai giornalisti che attendevano il suo arrivo.  Noi lo raggiungemmo dopo qualche giorno, con un treno che impiegò almeno 15 ore, fermandosi di continuo e passando i fiumi, compreso il Po, su pericolanti ponti di barche militari. Le belle vetrate    che coprivano i binari della stazione di Milano erano ridotte a scheletri, perché  erano crollate per i bombardamenti.  Ci aspettava una vecchia Aprilia che ci portò in Prefettura.  Sul muro del Palazzo degli operai stavano finendo di cancellare  la grande scritta di “benvenuto” che aveva accolto nostro padre: “A Piazza Loreto c’è posto per tutti”.  Poche ore per un primo giro dello splendido palazzo, con il  salone  da ballo e  le sale per la musica e per la scherma, con sciabole, fioretti e mascherine, e poi a cena, su una grande tavola che era servita per la predisposizione di quello sciagurato “Patto di acciaio” fra Mussolini e Hitler firmato a Berlino nel maggio del 1939.   Forse anche per le vicende paurose vissute  in Abruzzo ai tempi dello sfollamento, ero quel che si diceva “un fifone” e dormivo in un lettino nella stanza dei miei genitori, pronto a balzare, al primo brutto sogno, nel “lettone” in cui – come sapemmo nei giorni successivi -  Mussolini aveva dormito con Claretta nella notte precedente il suo disperato tentativo di fuga all’estero.

Il giorno dopo l’arrivo a Milano i miei fratelli  ed io uscimmo con nostra madre per un giretto di esplorazione nei dintorni. La Prefettura ha sede in Corso Monforte -  che era stato quasi del tutto risparmiato dai bombardamenti -  e dista  circa un chilometro da Piazza San Babila, dove ci accolse uno spettacolo terrificante. Dalle bombe  si erano salvati  solo un palazzo e la chiesetta che dà il nome alla piazza. Tutto il resto – pur essendo passati otto  mesi dalla Liberazione -  era ancora un cumulo di macerie: il Corso era praticamente scomparso e da lontano, in fondo a quella che era stata ed è la via principale della città, si vedevano,  incredibilmente intatte, le guglie del Duomo.

Nei giorni successivi scoprimmo gli altri disastri:  non solo i cumuli di  macerie ovunque ma la mancanza di ogni conforto: poche ore di luce e di gas al giorno, la stessa fame e la stessa borsa nera che avevamo conosciuto a Roma (un pò attenuate per noi che avevamo la fortuna di vivere in Prefettura), con in più gli scontri armati fra i partigiani ed   i fascisti, che avevano conservato le loro armi e che con le loro battaglie attentavano quotidianamente alla libertà ed alla vita dei cittadini.  Per non parlare dei clamorosi fatti di cronaca (la strage compiuta da  Rina Fort, che uccise la moglie dell’amante di suo marito ed i suoi tre figli; il trafugamento della salma di Mussolini) o    della criminalità organizzata, con bande feroci come quella di Bezzi e Barbieri.  E fu proprio Barbieri a fomentare e capeggiare la sanguinosa rivolta di San Vittore.  Era la fine di maggio del  1946 e per la prima volta, dopo l’arrivo a Milano, ci eravamo concessi due giorni di gita al lago di Como, ospiti del prefetto Vittorio Craxi (padre di Bettino) che era stato per pochi  mesi il vice prefetto di mio padre a Milano.  Mentre eravamo a cena, una telefonata drammatica avvertì mio padre della  rivolta di San Vittore, fomentata e  guidata da Ezio Barbieri, che aveva preso in ostaggio alcuni secondini e saccheggiato l’armeria del carcere.  Poiché all’epoca viaggiare di notte significava la quasi certezza di essere rapinati se non uccisi, Craxi diede una scorta armata a mio padre, mentre noi  rimanemmo  ancora una notte a Como.  San Vittore fu per mio padre una delle prove più dure, da cui uscì vittorioso, essendo riuscito ad ottenere – con l’aiuto di qualche colpo di cannone “di avvertimento” e giungendo ad offrirsi come ostaggio al posto dei secondini – a domare la rivolta.  La criminalità era così diffusa che i miei genitori dovettero scegliere per me la scuola elementare più vicina, nella piazza del Conservatorio, che era una scuola di suore, dove ogni giorno un agente di polizia mi accompagnava e mi veniva e riprendere. Nascono forse da quei tre anni dalle suore  i  miei sentimenti anticlericali.

Essendo il mio intento quello di dare solo  un’idea di quello che è stato il dopoguerra, sorvolo su mille altre vicende di disperazione e di sofferenza.  Ricordo solo una immagine incancellabile: in Piazza San Babila, dopo una forte nevicata, un gruppo di disoccupati che spalano la neve e ne fanno dei mucchi sudici per liberare la corsia stradale e le rotaie dei tram.  Vestiti di stracci, con le mani nude e livide, quasi in un girone infernale.

Per anni ho tentato invano di convincere i vari sindaci di Milano ad organizzare una grande mostra per far rivivere l’orrore delle distruzioni e il miracolo della ricostruzione. Avrei voluto chiamarla banalmente “Miracolo a Milano”, e avrei desiderato dedicare una sezione della mostra ad un fenomeno che fa onore alla città: lo straordinario   “melting pot” che consentì pacificamente  a decine di migliaia di meridionali di trovare una casa e un lavoro ed a Milano di risorgere  così rapidamente.  Di recente ho scritto qualcosa sulla rinascita di Milano (la Scala, gravemente danneggiata dai bombardamenti, riaprì già l’11 maggio del ’46 con un entusiasmante concerto di Toscanini) e sulla irripetibile fioritura culturale di quegli anni. Solo ricordi personali, ma spero di un qualche interesse per chi non è abbastanza vecchio da  ricordare quegli anni ad un tempo oscuri e luminosi (3).

Ora, con queste poche pagine, cerco di  dare ai miei amici   ed a me stesso qualche ragione non per sperare ma per essere certi che non solo sopravviveremo a  questa terribile vicenda del Coronavirus ma  forse ricominceremo a vivere  con un po' più di fiducia  nelle nostre istituzioni, con la consapevolezza delle cose da cambiare – soprattutto nel campo della Sanità, la cui guida  a mio parere va riportata allo Stato -  ed avendo imparato ad apprezzare di più le piccole grandi gioie del vivere quotidiano ed il valore della solidarietà.

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